LE INTERVISTE/ Il nuorese Sebastiano Corbu DT della nazionale: il racconto di una vita per la pesistica

LE INTERVISTE/ Il nuorese Sebastiano Corbu DT della nazionale: il racconto di una vita per la pesistica

17 Novembre 2020 Off Di Redazione GuilcerSport

La federazione italiana pesi Sardegna  nel proprio sito ha pubblicato una bella intervista con il Direttore Tecnico della Nazionale Sebastiano Corbu, nuorese, che ripercorre la storia della pesistica sarda, con personaggi e aneddoti. Ve la proponiamo in maniera integrale.

La tua storia con i pesi non si può scindere dal territorio in cui nasce, la Sardegna, Nuoro nello specifico.  
La storia del movimento della pesistica olimpica in Sardegna è molto bella, soprattutto quella che parte dopo la Seconda Guerra Mondiale. Nasce tutto con Frediano Papi, mio zio, cugino di mio padre; lui è stato allenatore di Nardino Masu, Sebastiano Mannironi e tanti altri pesisti sardi. Lui iniziò ad avvicinarsi ai pesi mentre faceva servizio come Vigile del Fuoco a Milano; all’epoca la preparazione fisica degli operatori del soccorso (i cosiddetti ‘pompieri civici’) era strettamente legata ad alcune discipline sportive, come la ginnastica artistica, la lotta e il sollevamento pesi.

A Milano, dunque, iniziò a coltivare la passione per i pesi, e quando tornò nella sua Nuoro decise di aprire il Gruppo Sportivo, mettendo insieme un gruppo di ragazzi che si allenavano per partecipare alle gare. Quello è stato il punto di avvio della Polisportiva, la Società Monte Ortobene, dove si praticavano diverse discipline, dal sollevamento pesi, alla lotta, al pugilato. Era la prima Società della provincia di Nuoro, a cui poi se ne affiancarono altre; i pesisti provenivano sempre da altre discipline, soprattutto dalla lotta. All’epoca non esistevano pesisti ‘puri’: gli atleti venivano allenati per competere in 2/3 discipline, che avevano in comune la forza, anche perché erano gestite dalla stessa Federazione. Così si allenavano anche per la pesistica olimpica. C’è stato anche un atleta cagliaritano che ha anche partecipato alle Olimpiadi pur non essendo un pesista, bensì un lottatore; fu scelto perché infortunandosi il titolare di categoria, allora c’erano ancora i pesi gallo, fu scelto l’atleta successivo in graduatoria, che era proprio lui.

Frediano Papi è stato una sorta di capostipite della pesistica  

Papi fu allenatore di Mannironi e Masu, sicuramente gli atleti più rappresentativi della Sardegna ma allenò anche tantissimi giovani atleti, come Gianfranco Prevosto. Dobbiamo tener presente che all’epoca non esistevano il livello giovanile e il livello junior, perché si cominciava da adulti a praticare i pesi, in qualsiasi parte del mondo; prima non si cercava la tecnica ma ‘l’uomo forte’ quindi un possibile pesista lo si individuava non in un ragazzo in crescita ma in un uomo fatto e finito, in una struttura adulta e matura. Ora è tutto diverso, l’approccio è cambiato completamente: la pesistica è legata molto all’aspetto tecnico e alle ricerche scientifiche legate allo sviluppo corporeo, che ci hanno fatto capire che gli atleti per specializzarsi devono iniziare l’attività da giovanissimi, anche prima dei 10 anni. Il fatto è che i ragazzini di oggi non praticano sport per avere una struttura e un bagaglio motorio sufficientemente adeguato ad essere in salute, figuriamoci per essere atleti!

Tornando agli atleti che hanno fatto la storia della pesistica sarda, Mannironi e Masu sono sicuramente i più rappresentativi 
Loro hanno dato lustro a quell’epoca come atleti e poi anche da tecnici, sono stati una sorta di traghettatori della pesistica, portandola verso la pesistica moderna. Loro si sono trovati nel mezzo del cambiamento, nel momento di passaggio. Entrambi partirono dalla Sardegna e arrivarono in Nazionale, dove furono allenati da Ermanno Pignatti, ed entrarono nel Gruppo Sportivo delle Fiamme Oro. Terminata la carriera da atleti Mannironi restò in Fiamme Oro come tecnico, mentre Masu decise di rientrare in Sardegna.

Ricordi i loro esordi?
Il dopoguerra non consentiva basi economiche forti alle famiglie e quelli che si volevano allenare lo facevano al dopolavoro. In quel periodo si cominciava a lavorare molto presto. Nardino Masu faceva il panettiere, aveva 14 anni e lavorava in una grossa azienda, appartenente ad una famiglia molto ricca di imprenditori, che dava molto lavoro alla gente di Nuovo. Invece Sebastiano Mannironi faceva il carpentiere. Entrambi, finito il lavoro, si ritrovavano come tanti altri nuoresi a passare davanti alla palestra di Papi e un giorno decisero di entrare, dando il via alle loro storie di pesisti. D’altra parte, a Nuoro negli anni Cinquanta c’erano d’avvero poche discipline: calcio, pugilato, pesi e poco altro, così la pesistica era diventata una sorta di sport popolare. Per un giovane di Nuoro era facile essere ricondotto alla palestra di sollevamento pesi, che era diventato un punto di ritrovo, anche perché era una delle poche discipline che dava sfogo ai giovani, gli consentiva di farsi valere.

Così le carriere di Masu e Mannironi si separarono, uno a Roma e l’altro in Sardegna. Al suo ritorno Masu proseguì il lavoro fatto da Papi, iniziando a metter su una buona squadra, anche se per un certo periodo non ci sono stati atleti di alto livello. Si andò migliorando negli anni Ottanta: con i programmi federali di allora si era abbassata tantissimo l’età del reclutamento degli atleti, quindi tutte le società del territorio cominciarono a lavorare con le scuole, con i tredicenni e non più con i ventenni. Ovviamente cambiò tutto perché era possibile scegliere talenti da poter formare, prima e meglio. Poi con i nuovi studi, si cominciò a capire che la tecnica era un fattore cruciale nella pesistica olimpica, in un processo in continua evoluzione e secondo me non ancora finito.

E tu quando ti sei avvicinato ai pesi? 
Io ho iniziato con Nardino Masu. Oltre a Gonario, io ho un fratello più grande, Giampiero, anche lui allenatore di pesi, anche se più schivo e chiuso di me. Era lui che quando eravamo giovani, viveva più da vicino la realtà della pesistica e ci portava in palestra. È stato lui che, con grande lungimiranza, preparazione e capacità di vedere l’evoluzione della disciplina, ci ha aperto la strada e ci ha portato da Nardino. Lui era quello che ci veniva a cercare, quando finivamo i compiti, per andare in palestra. Avevamo tutti la stessa passione. Oltre a mio fratello, colui che ci ha aperto la strada, sono stati i miei genitori ad aver capito e spinto a fare quello che ci piaceva. Nonostante l’età e la cultura dell’epoca, che imponeva di andare a lavorare, a realizzarsi nel mondo del lavoro, loro hanno compreso e hanno fatto grandi sacrifici per darci la possibilità di fare pesi. Senza ovviamente poter immaginare quello che i pesi ci avrebbero permesso di fare, con un grande dubbio sul domani. Devo tutto a loro. I miei non sono mai venuti a vendere una nostra competizione, avevano un po’ paura dell’irruenza del sollevamento pesi. Ma a qualsiasi ora tornassimo a casa li trovavamo svegli, per chiederci com’era andata, cosa avessimo fatto. Non mi sono mai sentito dire ‘non ti converrebbe lavorare?’ e invece sono sempre stato spinto a fare quello che mi piaceva.

Adesso da allenatore cambia tutto
Io ho smesso prestissimo di fare l’atleta, e ho cominciato a fare l’allenatore veramente giovane. Quando sono tornato dal militare sono entrato nei Vigili del Fuoco, e l’allora responsabile, sapendo che io provenivo da un medio/alto livello di pesistica, mi chiese di poter insegnare agli atleti che venivano ad allenarsi lì da noi. Così ho iniziato, con dei ragazzini che prestissimo diventarono atleti di buon livello. Quando ho iniziato a fare l’allenatore della Nazionale giovanile di pesistica avevo circa 23 anni. All’inizio ho continuato un po’ ad allenarmi contemporaneamente, fino ai 21-22 anni, ma credo che nella vita sia necessario fare quello che ti viene meglio e anche quello che la passione ti dice di fare. E io dovevo fare il tecnico. Ero più predisposto a fare l’allenatore che l’atleta.

Dati alla mano è stata una scelta giusta?
Credo che quello che si sceglie di fare non debba essere per forza legato a qualcosa di ‘più giusto’ o ‘più sbagliato’. Penso che all’epoca ho fatto bene e oggi non lo rimpiango, mi diverto a fare l’allenatore. Però io sono uno che mentre il mio atleta fa l’ultima alzata durante una gara, sta già pensando alla prossima competizione. L’unica cosa che mi da soddisfazione è un atleta che sale in pedana e fa i suoi pesi, di tutte le altre cose che ruotano intorno mi interessa poco. Come si dice a Roma “le chiacchiere stanno a zero”. È una delle prime cose che mi rimase in mente quando da ragazzino sono venuto a Roma, ascoltando una conversazione all’aeroporto. Nel percorso della vita, mi rendo conto che quel signore che ho incontrato quel giorno a Fiumicino aveva ragione.

E quindi la tradizione della pesistica in Sardegna è andata avanti 
Io credo che tutte le regioni siano stracariche di talenti, ognuno ce l‘ha a modo suo. Fondamentalmente se vuoi trovare degli atleti li trovi ovunque, anche perché non è vero che non ci sono più gli atleti di una volta, anzi. Prima si faceva molta più fatica a causa delle scarse possibilità economiche e anche della scarsa conoscenza tecnico-scientifica; quindi, ci si arrangiava con quel sapere dettato dall’aver praticato una disciplina e non dall’aver studiato e fatto ricerche perché si potesse sfruttare meglio le doti di un atleta di talento.

Il tuo modo di allenare quindi da dove nasce? 
Sembrerebbe un controsenso però io spesso vado a guardare quello che non si dovrebbe fare piuttosto che quello che si deve fare; quello che si deve fare lo si trova con la giusta pazienza e analizzando di volta in volta il soggetto, le particolarità che ha, quello che succede nella società, le problematiche familiari. Ci sono un’infinità di cose da attenzionare. L’aspetto psicologico degli atleti è fatto da tante sfumature. Se dovessimo andare a ritroso con la memoria, vedremmo che i talenti sardi della pesistica sono stati tantissimi, però poi la statistica ci dice che arrivati a una certa età non hanno proseguito per mille motivi: infortuni, aspetti tecnici, oppure si sono persi dal punto vista psicologico, autolimitandosi, fermati dalla convinzione che gli altri son troppo bravi o simili. Noi italiani poi abbiamo un pensiero comune: che gli altri sono sempre meglio di noi. Io questa cosa non la sopporto anche perché penso esattamente il contrario. Credo che, pur sempre con umiltà, avere un briciolo di presunzione sia necessario quando devi batterti e confrontarti con gli altri. Ma non solo quando si va in gara, perché non servirebbe a niente, bisogna tirarla fuori in allenamento quando si costruisce il lavoro.

In questo subentra il ruolo di un allenatore che non è solo un tecnico. 
Nelle diverse fasce d’età, durante la crescita, i ragazzi hanno bisogno sempre di qualcosa in più, che viene aggiunta per dargli modo di poter crescere. E in questo processo occorre curare sia l’aspetto dell’atleta, sia quello dell’uomo, per farlo sentire autosufficiente in tutto e per tutto. La cosa fondamentale è sapere separare bene le cose: il lavoro, l’affetto, l’insegnamento, prendendo posizione in maniera decisa. Inoltre, non bisogna prevalere in nessun modo su nessuno, nella vita di tutti i giorni. Fondamentale è l’esempio, perché le parole servono a poco se poi i fatti dicono altro.

Cosa pensi sul futuro della Pesistica Olimpica? La situazione internazionale è molto incerta… 
Penso che la responsabilità più grande di tutta questa situazione ce l’abbia il CIO. Da un lato probabilmente gli farà comodo farci fuori, ma dall’altro credo sia difficile visto che stanno mettendo in discussione la presenza della mamma di tutti gli sport, la mamma delle Olimpiadi. Se al CIO continuano a fare orecchie da mercante non andiamo da nessuna parte. La storiella ‘se i pesi non sono in ordine non saranno più benvoluti ai Giochi’ non regge più. Credo che se un giorno mi accorgessi che mio figlio, a casa mia, non fa i compiti o fa una monelleria qualunque, io devo redarguirlo e provvedere affinché li faccia. Il CIO, in quanto padre della famiglia degli sport olimpici, dovrebbe fare questo e invece non lo fa. Sono dieci anni che Antonio Urso ha denunciato azioni illegittime, doping, imbrogli, furti. Però ancora oggi chi dovrebbe ascoltare e mettere a posto le cose, ringraziare Antonio per tutto il lavoro che ha fatto, facilitandogli le cose, continua a far finta di niente; e ovviamente per noi è un problema perché nonostante l’Italia sia cresciuta tantissimo, non possiamo far nulla, rimane sempre tutto irrisolto. Dovrebbe cambiare radicalmente tutto, a partire dal nome della Federazione Internazionale, per non avere più a che fare con chi ha operato negli ultimi anni.